POESIE
MONOLOGO DEL COVID
Gentili, petulantissimi umani,
se permettete, adesso parlo io:
da un anno narrate di morire per
da un anno narrate di morire con
me che appena mi avvedo che esistete;
da un anno mi nominate invano
da un anno d’altro non parlate, anzi
sparlate, sproloquiate, senza sosta
vaneggiate… Ma io domando e dico
forse che avanti me non morivate?
Forse che dopo me non morirete?
Ma sì, stolidissimi, morivate,
ma sì, lagnosissimi, morirete!
È solo questione di tempo. Eppure,
ve lo dico da nemico, se foste
un capellino meno vili, ecco,
mica un capellone, no, un capellino
tutto andrebbe meglio, tutto umani,
vita, morte, miracoli e… respiro!
Ebbene sì, lasciate che vi sveli
questo trucco, o segreto se volete
del mestiere, giacché di questo un poco,
di respiro dico, a quanto pare io
m’intendo: respirereste meglio se
non a quel vostro deperente soma
o corpo come ossessi sempre e solo
voi pensaste, bensì anche e soprattutto
a quella cosa occulta, disusata
a quella cosa chiara e innominata
a quella cosa già chiamata anima.
Io sono colui che sta al confine
L’alto, il malinconico, il diverso
Il guardiano nella terra di nessuno.
Solitudine è il mio regno
Il giorno d’altri la mia notte.
Se piango sulla soglia del finito
è perché dentro mi ferì l’eterno
se vacillo in preda a oscuramenti
poi mi bagnano stille di lucore.
Io sono colui che tenerezza non incontra,
che ha pietà di chi si perde e prega.
Forse il tempo ti sembrò un abisso
Per il battito d’un cuore solo
Immisurabile,
in un brivido mortale forse il cielo
ti parve di vedere
a picco sulla tremante anima.
Grande sconosciuto amico,
di certo l’orizzonte cadde a pezzi
le sfere stellate s’incrinarono
dalla terra si levò un salmo e pianse il sole
quando all’angelo ti consegnasti
di cui portavi il nome.
Per te Gabriele, per il tuo dolore
quest’obolo d’argilla che ti dono
sia tramutato in grazia di parole.
L’ultima immagine vorrei tu fossi
che avrò negl’occhi prima di morire
con la tua guance d’alabastro tratte
magicamente in salvo dalla nebbia
che calerà sul viso
in un giorno assassinato al cuore.
Sarà d’estate tra scheletri di sole
e diluvi d’azzurro terebranti?
Non so, ma tu verrai come trapunta
di stellato algore per dare al fuoco
un’anima e a me il respiro
che mi farà di cielo.
Sarà d’inverno col buio che minaccia
E la tortora sul riarso prato brividente?
Certamente nella tempesta il faro
nella notte il lume buono tu sarai
con la tua bocca orlata di corallo
e le tue piccole gemmate mani,
i fiori ovunque sparsi
dalla bellezza tua infinita.
Sei la stella che l’oscurità circonda
sei la fiamma che la pena incrudelisce
sei la tregua che fa più aspra la battaglia
sei la guida in cui si specchia il labirinto
sei il giardino dove l’angelo ha riparo
dove fioriscono prima del silenzio
le rose estreme d’un gelido destino.
Fa’ luce ti prego fino all’anima
Se lo vuoi rischiara queste tenebre,
inazzurra il tormento che hai creato
ricama d’oro la sorte spesa invano;
aggiungi vita muta il lamento in canto,
sono obliato da me stesso un gorgo oscuro;
ho ancora un grido murato sulle labbra
e fango stigio disciolto nelle vene;
dammi parole di pietra da non dire,
l’approdo al sole è un cunicolo mortale.
Un poeta spera sempre che la luce
pupille implose torni ad irrorare,
inoltri trepidante un fremito
fin dentro gabbie di palpebre socchiuse.
Sotto tumuli di sabbie smemoranti
Allarga l’orizzonte e fa vibrare
Una parola sola, sordamente
Avvinta al proprio gemito, sul niente.
Un poeta non può essere ingannato,
anela d’ogni cosa
l’invisibile suo frutto,
e non s’illude e non dispera;
sa che un cristo attende,
appeso dappertutto.
Nel silenzio riposano i non pianti,
Heinrich, Wilhelm, Kurt,
Otto, Peter, Nikolaus,
i senza nome, i morti
i molti che un vasto vento benedice.
Stanno tra pietra aria acqua terra e luce,
perdonano la storia perché sanno
l’erba che cresce e il sole che la nutre.
Non gemono ora, ora non muoiono,
piuttosto con lieve sonno giacciono
fuori di sé sepolto il proprio inferno.
Ora dimentichi interrogano muti
L’impenetrabile pietà di sacre rondini.
Esistono luoghi martorianti,
tempi inerti, in cui la mente
macina nel nulla e vedi uomini
gestire come automi.
Non stupirti, del resto occorre spesso
che l’ora sia scandita
da acefali minuti incatenanti,
che con pena e con paura il piede affondi
nell’ostinato sforzo di calcare
aride lande ed interregni ciechi.
La tua penna brandisci come spada,
intingila nel rosso calamaio,
nel sangue del tuo cuore e guarda in alto!
Così sarà misconosciuto Arjuna
nell’alba incerta prima del conflitto
quel brancolare da bradipo colpito
più prossimo, sempre più vicino
al perenne sussistere del cardo
al levitante evoluire del delfino
all’incorporeo scatto del ghepardo
e al maestoso passo del destino.
Perché fiorisca un giglio di splendore
mieti il mondo, fanne fuoco e cenere,
intona l’alto canto che dà un’anima
all’albatro cadente all’albero alla stella.
Perché sgorghi l’acqua più lucente
scava fino al cuore del dolore
ascolta il nulla che cresce sulla terra
che penetra ogni cosa e la condanna.
Perché la vita risuoni oltre se stessa
e l’occhio varchi lo stretto della morte
e arretrino gli araldi del delirio
ama dentro il tempo, ama nel vuoto
con il viso sul nudo pavimento
le mani giunte ad implorare un dono
e al fianco un pugno d’ombre e di fratelli
che ritmano fanfare di sfacelo e sanno
sanno la luce in offuscabile,
la lingua risoluta ad imparare
un celeste alfabeto di salvezza.
Pietà moltiplica te stessa, l’uomo
dove si nasconde tu raggiungilo,
grazie che senza appartenervi
passi e illumini la terra
non lasciare che un solo filo d’erba
troppo si fletta oltre le sue forze.
E possa tutto diventare niente
se ama invano l’anima
che nessuno ama;
e silenzio sia la musica per sempre
se non un dio saprà
che un passero è caduto.
Spirito che soffi da altrove, divina
scintilla, sacro tremito, sorriso
d’infinita compassione
lavate quanto resta dell’umano,
levategli la spina dalla carne.
Lascia che le cose siano
che vada a fondo l’anima più chiara
che la carne si laceri in un grido
e veda il nulla, quell’antro nudo
dove in mutezza si dilegua il canto.
Patisca il padre le fauci della morte
nel gennaio che stermina i colori
le forme, gli angeli e la luce,
nella notte che la bocca ha sfigurato
stracciato vesti, venti soffocato
se dal costato del re, dell’altro padre
colò purpureo sangue.
Lascia sgorgare il pianto
parlare l’indicibile
d’un volto in agonia
che non può più mentire.
Lascia che passi il mondo.
Arda la terra e tornino gli eroi
in questo tempo arso, in questo nulla
che taglia teste e teme la parola;
uomini chiamati, antichi e nuovi
sentinelle di fiamme e di declini,
di tramonti che si fanno aurora;
umili cuori che sappiano l’abisso
la peste che vaga nelle tenebre
lo sterminio che devasta a mezzogiorno,
la frase infranta, la lingua
cifrata dell’esilio, che volteggino
leggeri e luminosi come angeli
su ogni essere solo al suo patibolo.
Lo so che tutto il male è nella lingua,
in quel non luogo, in quel mistero orfano
costretto a un balbettio demente
a un nominare afasico e mortale
a un bene infetto stipato dentro il tempo.
Lo so che siamo qui per un addio,
per un’assurda fuga da tentare
con l’indicibile coraggio dello storpio
armato solo di tenebra e respiro.
Lo so che questa mano è monca
e traccia versi a forma di ferita
persi nell’indicibile ora dello scempio.
Ma se l’anima sanguina nel canto
e nel buio crepiamo di parole
partorite ad incrinare il niente
ancora splende la parola prima,
è sempre un dio che al cappio ci destina.
Prima che qualcuno venga a prenderti
o nessuno e ti dica
questa è la tua ora ospite,
ignoto commensale d’una tavola
che troppe volte fu razziata,
straniero nel paese e nel castello
agrimensore del nulla e della neve
questa è la finale mietitura
strappa ogni radice mai piantata,
prima che tutto ti diventi intorno
nero bagliore e luminoso enigma
e il passo claudicante trovi vento
per iniziare un cammino che non c’è
dietro l’uomo con cuore d’infinito
dietro l’angelo con ciglia di rubino,
prima che il gelo brandendo un’alabarda
la spada che dilania e dà la vita
ti frani addosso e ti trasformi in aria
in polvere salvata,
prima, prima che ti lasci notte
inumidisci la gola strangolata
bagnala d’essere e di luce
coincidi con te stesso, stringi
stringi forte, abbraccia il tuo destino.
Avere una volta il cuore libero
nel fiume tergersi dell’oblio perfetto
mordere il frutto, finalmente essere…
ma questo è il tempo del dolore
il tempo che mutila le anime
l’ora spietata che separa, uccide
chi trema e non azzanno i lombi della vita
chi esitante non lacera la preda
chi si piega e stelle marce gli stanno
sulla testa, mentre vola il tempo
e lo divora, mentre un angelo resta
assorto sulla soglia e dopo scuote
silenzioso il battente del destino,
entra e piano gli si risveglia accanto
spalanca gli occhi, gli si fa vicino.
Finiscono gli uomini, finiscono
le cose, ma tu parla, lo stesso,
di’la tua parola nella
dura presenza della fine,
spendila entro i bagliori vaghi
tra gli interstizi occulti
del più dirotto pianto,
alzala a spezzare
gli argani del buio, la più gelida
sintassi delle tenebre.
Trova la frase, il verso sanguinante
quello che non dice e insieme dice
per i puri dagli occhi devastati
per gli inermi strappati a ogni giaciglio;
leva il canto più fragile ed esatto
offrilo in dono a chi non sa la gloria,
parla, dì la tua parola, l’ultima
la prima.
Padre infinito, Padre senza nome
Padre che piangi e benedici il giorno
Padre che perdoni
chi fustiga la carne di tuo figlio
e non conosce il bene,
Padre che ami dentro ed oltre il tempo
Padre che tendi la mano al torturato
Padre che il figlio conduci al tuo riparo
Padre, Padre che in nessun luogo sei
e sei dovunque, abbi pietà di noi
che siamo vento, da sempre grano
promesso ad una falce
abbi pietà di noi che siamo nulla
che abbiamo il cuore scavato dall’addio.
La poesia procede dalla notte
come il fiore da terra e da letame
come l’alba che nasce nella notte
abita il sogno e brucia nel silenzio.
La poesia dà nomi alla tempesta
accende fuochi, scalda il solitario
ma come un re mendico ed esiliato
reca un canto proscritto dalla terra.
La poesia s’ammanta di macerie
di dura pietra, di fango, di fulgore,
niente domina, niente lei possiede,
soltanto è, soltanto anima, risplende.
Nessun’alba di fiamma e di cristallo
nessun mattino dispiegherà le ali
diafano e adamantino nel suo volo
senza l’ascia affilata della notte
che trancia i polsi e sgomina il respiro.
Lo sa chi abita dimore devastate
e stringe in pugno un grumo di parole
e nel petto alberga l’invisibile,
lo sa chi piange lacrime di luce
chi si congeda per mai più tornare.
El Diez
a Diego Armando Maradona
Chi è davvero grande sa
cos’è l’inferno.
Avevi dentro un grumo di tragedia tu
come un cancro abbarbicato al cuore,
per questo non sembravi vero
quando solcavi l’erba, quando sembrava
che un angelo ti giocasse accanto,
un angelo dal volto oscuro,
un angelo dal viso indio;
accanto a te mio dieci, dieci eterno.
Senza di te, per sempre, solo un campo
nient’altro che uomini in mutande,
senza più cielo, senza più magia
senza più niente da raccontare.
Angelo della suburra, Dieguito,
la nostalgia di te ci abrade l’anima.
Eri un poeta.
Questo non è il regno.
Qualunque cosa accada
immobile permani nel tuo nulla
e dal tuo nulla avanza.
Qui certe madri sono salici
E hanno figli che nascono spezzati,
qui anche le stelle muoiono
e non un canto resiste fino all’alba;
qui finisce presto il tuo respiro.
Questo non è il regno.
Tu che tremando preghi a questo vento,
tu che splendi di un immane pianto
sappi che questo non è il regno, sappi
che l’amore non è di questo mondo.
Questo sappi e ciecamente ama.
Qui dove tutto
per volte ultime destinalmente è
afferra il calice e colmalo di lutto
afferra il calice e colmalo di gioia,
non separare il giorno dalla notte,
vuota il calice, fino alla feccia,
vuotalo, fino all’altrove della vita.
a Roberto Carifi
E nel cammino trovai la tua parola
mietuto grano e stupefatta stella
bocca di fango che sanguina la luce,
trovai la tua parola e ne mangiai.
Nuda bruciò sulla mia fronte nuda
e più piena luccicò nella tua voce
la benedetta chiarità di ogni deserto.
D’improvviso calò la tua parola
netta calò come la scure cala
acuminata calò come la falce
che dà la morte e insieme dà la vita.
E fratellanza germinò dalla tua voce
dal fioco lume del tuo sguardo chiaro
dal tuo inverno trepido di fuoco
dal tuo inferno gravido di giorno.
Nel mio destino fiorì la tua parola.
Mio perduto canto erompi ancora,
dalla più dura pietra sgorga puro,
fluisci, straripa dalla carne, fanne
fertile semenza, incendiala,
che sia soltanto fiamma, densa
neve, immemoriale trasparenza.
Canto mio perduto ma non morto,
canto di tutti, canto ascensionale,
canto dei fiori e delle cose mute,
canto dei frutti, riversati, esonda
dai confini, varca gore e cupe
piagge e valli, ma sii valle e
piaggia cupa e gora, canto mio
iemale ed estuoso, canta forte,
valica il passo senza più ritorno,
lùmina il giorno, brucia morte e male.
per Cesare Vivaldi
Se un eliso ti abbia infine accolto
io, grande Cesare, non so.
Come potrei saperlo, nulla si sa
su questa sponda buia
eppure a sprazzi madida di sole
che è la vita, arco perennemente teso
il cui bersaglio è il nulla o l’infinito.
Nulla so e tuttavia ricordo
il tuo sapiente eloquio dispiegarsi
in una dolce sera di tarda primavera
attorno ad una tavola che un dio
domestico e cordiale aveva
per noi poveri mortali apparecchiato.
Un dio gentile come te.
Mi paresti allora
quasi un romano antico
d’arte e poesia grandiosamente onusto,
come mi parve in un barlume
come ancora mi pare di vedere
fra il padre e te, fra te e il padre
il più bello dei segreti balenare,
più bello perfino dell’amore:
quel segreto che chiamano amicizia.
Beckettiana
Io sono il dilettante che s’ostina
benché questa partita sia finita
o forse mai davvero cominciata,
sono Estragone e sono Vladimiro
tutto è innominabile, lo vedo
eppure credo che tutto sarà rinominato.
Verrà mai Godot? se mai verrà non so
eppure attenderlo mi sembra
la sola cosa giusta
eppure attenderlo mi pare
la scelta inevitabile.
L’oro del tempo
a mio padre
Se mai pittore dipinse con il sangue
quello fosti tu. Posato il sole
sulla frale epidermide del mondo
chiamati a raccolta i quattro venti
ingiunto alla lacrima di fulgere
al cuore intimato di esultare;
disvelato l’enigma quotidiano
distesa la metafisica dei giorni
l’ardua materia assoggettata
all’imperio dell’occhio e della mano
all’alta legge della forma e del colore
istituisti giacche, motociclette, prati
stendesti rutilanti cieli e ancora
lasciasti volteggiare angeli
parlare le ombre della sera
dissigillarsi misteriose stanze
e molti altri miracoli accadere,
per la forza discreta del tuo amore,
per la lunga pazienza del tuo genio;
per il tuo lungo coraggio,
per la tua lunga onestà.
E ora che il tempo è veramente andato
l’oro è quel che resta, solo l’oro.
Alla luna
Poiché sei dolce e la tua luce
non fa male io ti amo
antica luna nella teca
del cielo incastonata, dalla notte
dei tempi nella notte
magicamente appesa a rischiarare
quest’angolo remoto d’universo
questa lenta morte che non muore
questa vita che tarda ad arrivare.
Poiché perpetuamente sorgi e con il tuo
malinconico sorriso scavi
soavemente scavi il buio e poi tramonti
ammutolita amica io ti amo.
Ti amo quando placida riluci
e di parole mùtila mi chiedi:
“che fai tu, uomo, in terra? Dimmi, che fai,
vaniloquente uomo?”.
I morti non possono rispondere,
eppure sono qui, più vivi
di quando erano vivi e non vedevano,
più vivi di quando erano vivi
e noi non vedevamo
l’angelo che gli volava intorno,
e mirra ed oro gocciolare a fiumi
da quelle povere palpebre ferite.
Per giungere al passo che travalica
non c’è che questa strada, quest’erta
di sassi acuminati e pruni atroci
la mulattiera dove il corpo cede
e spuntano tra spasimi
all’anima le ali.
E c’è un antartide di gelo da solcare
da fendere un polo nord di ghiaccio
per arrivare al culmine del mondo
nella perfetta quiete dentro il fuoco;
perché non raggia aurora
senza notte oscura
né verità deflagra
senza dismisura.
PRIMAVERA ITALIANA
Dagli atrii muscosi, dai balconi cantanti
un non popolo di larve s’aderge
e l’ugola dispiega.
Teleidioti che parlar non sanno,
eppur cantano, cantano soavi,
ché sempre come per magia
ratto al pensier lor canto s’apprende.
Cos’altro far del resto
se un morbo pornografico s’aggira
(che mannco i morbi son più quelli d’una volta)
Se un virus telegenico imperversa?
Cos’altro fare? Questi
sono gli ordini. Gli ordini di sempre:
credere, obbedire e non combattere.
Dio, di questo popolo, or ti piaccia
gradir la dipartita:
libertà va schifando ch’è sì cara
come sa chi per lei vita rifiuta.